La corte di appello di Bari, prima sezione civile, in persona del
dott. Vittorio Gaeta - designato ex art. 3, comma 4, legge n. 89/2001
come  modificato  dalla   legge   n.   134/2012   con   provvedimento
presidenziale 25 gennaio 2013; 
    Visti  gli  atti  del  procedimento  n.  701/12  V.G.  per   equa
riparazione ex legge n. 89/2001, istante  D'Aversa  Concettina  (avv.
Renato Potente e Carla Saltarelli); 
    Viste le note difensive, depositate l'11 marzo 2013 dall'istante,
a seguito di provvedimento 5-7 febbraio 2013 di questo G.D.; 
    Ha pronunciato la  seguente  ordinanza  premesso  che  Concettina
D'Aversa, dipendente della  ditta  «Industria  casearia  di  Tamburro
Aldo», propose il 30 settembre 1993 ricorso al pretore di  Campobasso
per il pagamento di differenze retributive,  e  che  il  giudizio  si
interruppe  a  causa  del  fallimento  dell'impresa,  dichiarato  con
sentenza tribunale Campobasso n. 2/96 del 6 marzo 1996  in  procedura
fallimentare n. 1/96; 
    Che, con atto  depositato  il  27  marzo  1997,  D'Aversa  chiese
l'ammissione  del  credito  al  passivo  fallimentare  e   che,   con
provvedimento in  margine  all'istanza  datato  22  luglio  1997,  il
tribunale ammise un credito di £ 13.318.581, pari a € 6878,47; 
    Che di tale somma ella ha ricevuto complessivi € 6541,32 (di  cui
€ 947,19 nel giugno 2002 e  €  5594,13  nell'agosto  2010),  restando
creditrice del residuo; 
    Che, alla stregua di attestazione di cancelleria del 14  febbraio
2013, la  procedura  concorsuale  n.  1/96  tribunale  Campobasso  e'
tuttora pendente; 
    Che, allo stato,  si  ipotizza  la  vendita  di  altri  beni  del
fallito, ma non sono stati formulati ulteriori piani di riparto  dopo
quello  approvato   il   19.4.2010,   sicche'   non   e'   definitiva
l'attribuzione alla  creditrice  di  € 6541,32  anziche'  dell'intera
somma di € 6878,47 ammessa dal tribunale fallimentare; 
    Che, con ricorso depositato il 19.12.2012, D'Aversa ha chiesto  a
questa Corte di indennizzare il  danno  (solo)  non  patrimoniale  da
eccessiva  durata  della  procedura  fallimentare,  nella  misura  di
€ 8000,00, oltre ad accessori e a spese legali; 
 
                               Osserva 
 
    1.  Secondo  la  giurisprudenza,  nei  confronti  del   creditore
fallimentare  la  durata  del  processo  presupposto,  rilevante  per
l'accertamento della violazione del termine ragionevole di durata, si
commisura al periodo tra la proposizione della domanda di  ammissione
al passivo e la distribuzione finale del ricavato (Cass. 2207/10). 
    Il dies  a  quo  del  termine  semestrale  di  decadenza  per  la
proposizione della domanda di equa riparazione,  poi,  si  identifica
con il momento in cui  il  decreto  di  chiusura  del  fallimento  e'
diventato   definitivo   (Cass.   15251/11),   o   con    l'eventuale
soddisfacimento integrale  del  credito  ammesso  al  passivo  (Cass.
950/11). 
    La decadenza peraltro non si verifica se in pendenza di procedura
fallimentare sono eseguiti dei riparti parziali, i  quali  non  fanno
venir meno l'interesse del creditore alla  rapida  definizione  della
procedura e il  suo  disagio  psicologico,  derivante  dall'ulteriore
protrarsi della stessa nel tempo (Cass. 23034/11). 
    2. Alla  stregua  di  tali  orientamenti,  che  integralmente  si
condividono, la proposizione della domanda di equa riparazione non e'
tardiva, perche' il processo presupposto non e' stato definito e sono
stati effettuati  dei  riparti  solo  parziali.  Essa  tuttavia  deve
considerarsi prematura ai sensi dell'art.  4  della  legge  24  marzo
2001, n. 89, nel testo applicabile ratione temporis a  seguito  della
modifica operata dall'art. 55, comma 1, lettera d), decreto-legge  22
giugno 2012, n. 83, convertito con legge 7 agosto 2012, n. 134. 
    Ed infatti, il testo vigente dell'art. 4, legge n.  89/2001,  nel
confermare che «la domanda di riparazione  puo'  essere  proposta,  a
pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in  cui  la  decisione,
che conclude il procedimento, e' divenuta definitiva»,  ha  soppresso
il precedente inciso, contenuto  nel  testo  anteriore  dell'art.  4,
secondo cui la domanda di riparazione «puo' essere  proposta  durante
la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione  si  assume
verificata». 
    L'eliminazione  di   tale   inciso,   esaminata   unitamente   al
mantenimento della regola sul termine semestrale  di  decadenza,  non
puo' che avere il significato di precludere, dal momento  di  entrata
in vigore del nuovo art. 4, la proposizione  della  domanda  di  equa
riparazione, qualora il procedimento presupposto sia ancora pendente,
in quanto non concluso con decisione definitiva. 
    Di conseguenza, in relazione al testo vigente dell'art. 4,  legge
n. 89/2001, la domanda  di  equa  riparazione  appare  improponibile,
sicche' e' rilevante  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 55, comma 1, lettera d), decreto-legge 22 giugno  2012,  n.
83, convertito con legge 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato  il
predetto art. 4 - il cui testo anteriore avrebbe invece consentito la
proposizione della domanda. 
    3. In punto di non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
legittimita' costituzionale del testo vigente dell'art. 4,  legge  n.
89/2001, il G.D. osserva che dal 27 marzo 1997, data di presentazione
della domanda di ammissione al passivo fallimentare, al  19  dicembre
2012, data di proposizione della domanda di  equa  riparazione,  sono
trascorsi circa 15 anni e 9 mesi, e cioe' un tempo molto  piu'  lungo
dei 6 anni, che il vigente art. 2,  comma  2-bis,  legge  n.  89/2001
considera ragionevole per la conclusione di una procedura concorsuale
- che nella specie non era di particolare  complessita',  riguardando
una ditta individuale di non grande dimensione. 
    Eppure, nonostante la procedura concorsuale non si sia conclusa e
il  credito  dell'istante  D'Aversa   non   sia   stato   interamente
soddisfatto, non e' proponibile la domanda di  equa  riparazione.  In
tale situazione, originata dal vigente  art.  4,  legge  n.  89/2001,
appaiono lese diverse norme della Costituzione. 
    3.1. Appare violato anzitutto l'art.  3  della  Costituzione,  in
quanto l'indennizzo puo' essere richiesto da chi lamenti  l'eccessiva
durata di un processo presupposto che si e' almeno concluso,  ma  non
da chi lamenti l'eccessiva durata  di  un  processo  presupposto  che
neppure si e' concluso, benche' in tale seconda situazione la lesione
del diritto alla ragionevole durata risulti ictu oculi piu' grave. 
    Ne'  l'esigenza  di  consentire  la  valutazione   unitaria   del
pregiudizio mediante la cognizione della durata dell'intero  processo
presupposto potrebbe giustificare la ravvisata  discriminazione,  nel
momento in cui la causa di improponibilita'  della  domanda  sussiste
anche quando, come nella specie, risulti enorme  (quasi  10  anni  in
piu' del termine ragionevole) il ritardo gia' maturato  nel  processo
presupposto, e quest'ultimo abbia ad oggetto la mera  attuazione  del
diritto primario (pacifico nell'an e nel quantum)  della  lavoratrice
alla retribuzione, peraltro gia' richiesta sin dal 1993 nei confronti
dell'imprenditore in bonis. 
    3.2. Appare poi violato l'art. 111 cpv.  della  Costituzione,  in
quanto il diritto di agire per l'equa riparazione  costituisce  ormai
una forma di attuazione indiretta del diritto alla ragionevole durata
del processo presupposto. 
    3.3.  Appare  infine  violato  l'art.  117  della   Costituzione,
relativo  al  rispetto  da  parte  della  legislazione  dei   vincoli
derivanti dall'art. 6, comma primo della Convenzione EDU, che prevede
il diritto delle parti all'esame della loro causa «entro  un  termine
ragionevole». 
    Indubbiamente, l'obbligo fondamentale degli Stati  aderenti  alla
Convenzione  EDU  e'  di  garantire,  attraverso  appropriate  misure
organizzative e legislative, il diritto alla ragionevole  durata  dei
processi. La previsione di specifici rimedi indennitari  in  caso  di
violazione di tale  diritto  non  e'  di  per  se'  doverosa  per  le
legislazioni nazionali. 
    Cio' nonostante, l'introduzione  del  rimedio  c.d.  Pinto  quale
forma di attuazione del principio di sussidiarieta' nella tutela  del
diritto all'indennizzo non e' guardata con sfavore dalla Corte EDU, e
puo' anzi essere intesa come espressione di una linea di tendenza  di
piu' largo respiro. Cio' e' confermato dalle due sentenze  emesse  in
data 31 maggio 2012 nei casi (rispettivamente n. 19488/09 e 53126/07)
Garcia Cancio contro Germania e Taron contro Germania, nei  quali  la
richiesta di indennizzo  del  danno  da  eccessiva  durata  e'  stata
rimessa dalla Corte EDU alla giurisdizione interna, attesa  l'entrata
in vigore in Germania, il  3  dicembre  2011,  di  una  legge  avente
finalita' analoghe alla nostra legge n. 89/2001. 
    In tale contesto, il rimedio Pinto ha  senso  se  e'  dotato  del
carattere  dell'effettivita',  e  cioe'  se   consente   la   massima
conformazione possibile  del  giudice  nazionale  alle  regole  della
Convenzione  EDU  come  interpretata  dalla  Corte   di   Strasburgo.
L'obbligo di conformazione, e quindi di tendenziale  coincidenza  tra
l'area della legge Pinto e la giurisprudenza di Strasburgo, e'  stato
affermato dalla nostra Cassazione  a  partire  dalle  sentenze  delle
Sezioni unite civili n. 1338/04, n. 1339/04 e n. 1340/04,  ed  ancora
di recente e' stato ribadito da Cass. civ. 21652/12,  che  alla  luce
dell'art. 34 della Convenzione ha escluso l'indennizzo  da  eccessiva
durata in favore della parte processuale che sia ente pubblico. 
    Al contrario, la legge  si  pone  in  contrasto  con  il  vincolo
convenzionale allorche' il suo  adempimento  risulta  solo  apparente
perche' privo del requisito dell'effettivita', che la  giurisprudenza
di Strasburgo costantemente richiede. 
    A titolo meramente esemplificativo,  si  ricordano  le  sentenze,
rese in relazione a diritti  convenzionali  diversi  da  quello  alla
ragionevole durata del processo: 
    a) Artico contro Italia del 13 maggio 1980, nel cui paragrafo  33
e' detto che «La Cour rappelle que le but de la  Convention  consiste
a' proteger  des  droits  non  pas  theoriques  on  illusoires,  mais
concrets et effectifs»; 
    b) Ramsey contro Cipro e Russia del 7 gennaio 2010,  sull'obbligo
di indagini statali efficaci nei casi di human trafficking,  nel  cui
paragrafo 275 della parte motiva e' detto  che  «Finally,  the  Court
emphasises that the object and  purpose  of  the  Convention,  as  an
instrument for the protection of individual  human  beings,  requires
that its provisions be interpreted and applied  so  as  to  make  its
safeguards practical and effective (see, inter alia, Soering  v.  the
United Kingdom, 7 July 1989, § 87, Series A no. 161;  and  Artico  v.
Italy, 13 May 1980, § 33)»; 
    e)  Torreggiani  contro  Italia  dell'8  gennaio  2013,  nel  cui
dispositivo, al punto 4, viene fissato al nostro Paese il termine  di
un anno per «istituire un ricorso o un  insieme  di  ricorsi  interni
effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in
caso di sovraffollamento carcerario, e cio' conformemente ai principi
della Convenzione come stabiliti nella giurisprudenza della Corte». 
    3.3.1. In conclusione, le modifiche della  legge  n.  89/2001  si
giustificano  rispetto  all'art.  117  della  Costituzione  solo   se
conservano o accrescono l'effettivita' del rimedio  indennitario,  la
sua conformita' alle regole della Convenzione e  alla  giurisprudenza
di Strasburgo. 
    La contestata modifica dell'art. 4, legge n.  89/2001  ha  invece
drasticamente soppresso tale conformita'  in  relazione  ai  processi
presupposti non ancora definiti, il cui  eccessivo  ritardo  consente
oggi alla parte danneggiata solo di rivolgersi  alla  Corte  EDU  per
l'indennizzo,  nonostante  in  casi  come  quello  della  lavoratrice
D'Aversa il ritardo maturato sia gravissimo  e  colpisca  il  diritto
primario alla retribuzione. 
    Ne' la soppressione di tale facolta' di azione  in  relazione  ai
processi presupposti ancora pendenti puo' correlarsi a  un  eventuale
ridimensionamento del problema della eccessiva durata  dei  processi,
che rimane tuttora un problema strutturale del nostro Paese. 
    Non  e'  infine  possibile  un'interpretazione  convenzionalmente
orientata, perche', come si  e'  visto  al  precedente  punto  2,  la
finalita' del nuovo art. 4, legge n. 89/2001 e'  univocamente  quella
di  impedire  la  proposizione  della  domanda  di  equa  riparazione
relativa a giudizio presupposto ancora pendente.